La pace e la non violenza
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La pace e la non violenza

Di Giovanni Del Missier psichiatra e psicoterapeuta, socio della CSPM

Quanto segue è il contributo dell’autore al dibattito con esponenti del giornalismo e della cultura che seguì l’evento teatrale “Essere esseri umani” il 7 novembre al Teatro Anfitrione in Roma nell’ambito del progetto omonimo patrocinato da Roma Capitale, presentato da Il vaso di Pandora e Declinazione Donna a sostegno di Medici senza Frontiere.

Il testo fu letto dall’attrice Annachiara Mantovani

“Ringrazio in anticipo tutti quelli che avranno la pazienza di ascoltarmi e che spero di non annoiare, così come già ringrazio Annachiara per l’ingrato compito a cui si è resa disponibile. Inizio scartando a priori una opzione ovviamente impraticabile: quella che io vi venga a dire che la guerra è meglio della pace; meglio feroci guerrieri che pacifici cittadini. Non è una premessa inutile o scontata, dico questo per non dimenticare che ci furono tempi bui in cui si pensò e gridò in tal modo, e non da parte di burberi soldati di ventura, bensì da illustri intellettuali e famosi artisti. Per gli studenti che hanno in programma la Prima guerra mondiale si leggano cosa scrissero a proposito un grande poeta come Gabriele D’Annunzio e il famoso fondatore del Futurismo, Tommaso Marinetti. Mi vergogno solamente a ripetere quanto dissero: “La guerra igiene del mondo”. Quindi non fa male ricordare che, ora come allora, c’è chi fa tifo per la morte. Che poi questa parola “morte” venga nascosta dietro altre parole come Dio, patria e famiglia ma anche onore, fedeltà, giustizia, popolo, coraggio, rivoluzione eccetera, è solo una mistificazione. Per chi ha in programma la filosofia del Novecento si vada a vedere la teoresi di un illustre filosofo esistenzialista che trafficò con i nazisti, Martin Heidegger, che esaltava “l’essere per la morte”, perché questa era la tragica finalità umana.

Archiviata, facilmente direi, questa prima impraticabile opzione rimane la seconda, “Il tema della pace”, che merita un approfondimento non scontato. Se dico “Basta morti assassinati, di qualunque colore, politico o …cutaneo, essi siano” non credo di stupire nessuno. Allora vorrei fare una proposta: perché parlare di pace e non usare invece il termine non violenza? Senz’altro si dirà che sono uguali, sinonimi, penso invece che non siano esattamente sovrapponibili e così dicendo spero di suscitare ricerca e riflessioni.

C’è pace in un deserto, c’è pace su un ghiacciaio, c’è pace in un ufficio o in una fabbrica, dove centinaia di impiegati o di operai lavorano senza fiatare, senza alzare mai la testa dove “non si sente volare una mosca”. C’era una volta la famosa pax romana, tutti buoni e zitti sotto le leggi e le legioni dell’imperatore. Poi non vorrei essere macabro, ma c’è molta pace anche in un cimitero, ecco, appunto, la pace dei sensi!

Allora io volgo lo sguardo invece verso il termine non violenza che può connotare una dialettica, un confronto, se vogliamo anche aspro, per es. tra genitori e figli, tra studenti e professori, tra politici di diverse fazioni, anche tra due amanti… ma, attenzione, senza farsi del male, senza torcersi un capello, senza lesioni di nessun tipo, né fisiche né psichiche. Un esempio? Le competizioni sportive, esemplare è il rugby dove si lotta aspramente in campo, si è rivali, ma finita la partita si va tutti insieme al pub, avversari ma non nemici.

Cosa voglio dire? Che è la dialettica non violenta che ci fa crescere, ci costringe a cercare la strada e il modo di ricomporre conflitti, di essere sempre più esseri umani. Il confronto non violento, se ben condotto, ci arricchisce. Detto altrimenti è il rapporto col diverso, con chi è diverso da noi, sotto qualsiasi punto di vista, che ci fa cambiare, evolvere, se lo si sa condurre nel giusto modo.

Come se ci fossero tre possibilità di rapporto col diverso:

La prima è “O tu o io, o con me o contro di me. Vita mea mors tua”. Non c’è alternativa. Uno vince, l’altro perde e spesso perde la vita. La guerra, secondo me, si colloca all’estremo di questa possibilità, è la maggiore disumanità a cui l’uomo può arrivare collettivamente e non è un gioco di parole, ma è proprio così: l’umano può diventare totalmente disumano.

La seconda possibilità di rapporto col diverso è la pace come assenza di qualunque rapporto, ovvero il non rapporto al servizio della pace. Si dice “vivi e lascia vivere e ignora il diverso”. O, se si vuole, “tollera il diverso” ma… “ognuno a casa sua”. E’ la politica dell’apartheid, ciò che accadde in Sudafrica verso i nativi o negli Stati Uniti del Sud verso i neri.

La terza ipotesi di rapporto è quello non violento, attuato in un rapporto anche conflittuale e pieno di rifiuti ma mai violento, né materialmente né psicologicamente, e in cui alla fine ognuno possa magari ritrovarsi arricchito, senza che l’altro si sia impoverito. Non è un gioco a somma zero, ma si è creato qualcosa di nuovo che prima non c’era, un’idea, una creazione artistica o anche un bambino nascono sempre dal confronto tra diversi.

Per ribadire perché io sposi questa terza possibilità di rapporto con il diverso, è interessante sottolineare che le prime due tipologie di rapporto descritte, la guerra e la pace, non sono affatto così distanti e opposte tra loro come sembrerebbe. Pensiamo a come un famoso Presidente ha commentato la recente tregua in Palestina. “Peace through strength!”. La pace attraverso la forza. Commentiamo questa frase per evidenziare una mistificazione, lui parla di forza ma in realtà lui intende violenza, la pace attraverso la violenza. Riappropriamoci noi, invece, del termine “forza” per usarlo in compagnia di altri termini, quali resistenza, tenuta, sapienza, ricerca. La forza sta nel non smettere mai di ascoltare, dialogare, confrontarsi, anche decisamente, anche rifiutando. Ma sempre senza che scompaia l’idea di una possibile ricomposizione.

Forte è colui che (individuo o collettività) continua a credere nell’uguaglianza degli esseri umani e nell’idea di un possibile superamento del conflitto. Violento è colui che, avendo abdicato a questa idea, non gli rimane altro che l’opzione aggressiva e distruttiva.
Che cosa ci ha insegnato questa tragica vicenda bellica? Che pace può anche accoppiarsi a violenza, tanto è vero che qualcuno ha pensato bene di proporre per “quel” Presidente il Nobel per la Pace, una pace raggiunta con la violenza, è tutto dire!

Viceversa, chi è non violento è costretto a raggiungere la pace solo grazie alla forza, la forza delle idee e dei comportamenti non violenti. Dobbiamo forse ricordare Gandhi, Nelson Mandela, Martin Luther King o, ciò che nessuno ricorda mai, la reazione della Cecoslovacchia all’invasione sovietica nel 1968?. Io ho finito. ringrazio voi e ovviamente Annachiara”.

 

Qui si concluse la lettura, da parte dell’attrice, di quanto era stato scritto precedentemente, ma un amico, a cui piace fare “l’avvocato del diavolo”, pur apprezzando il lavoro ricordò la concreta evenienza di casi estremi dove è necessario agire con violenza. Per esempio: la legittima difesa, o intervenire per fermare un’aggressione verso terzi. O anche (e soprattutto) la Resistenza armata al nazifascismo.

Questa richiesta di far luce su apparenti contraddizioni, mi permette ora, e di ciò ringrazio l’amico, di esplicitare meglio quanto affermato sopra e non lasciare spazio ad eventuali fraintendimenti.

Occorre ribadire fermamente che la valutazione del binomio violenza-nonviolenza non può esaurirsi nella valutazione comportamentale, su criteri positivistici. La differenza tra violenza e non violenza non risiede nella realtà materiale, ovvero nel comportamento osservabile e nell’arida descrizione dei fatti; essa deve tener conto innanzitutto della realtà psichica del soggetto agente, della sua intenzionalità, dei suoi affetti.

Un comportamento può essere duro, molto duro, apparentemente violento, se preso alla lettera, ma se scaturisce da una realtà interna di interesse per l’altro ed è priva di intenzioni vendicative, esso non è realmente “violento”. E’ la invisibile realtà interna che fa di noi dei violenti oppure no, al di là del comportamento visibile. Paradigmatico è il comportamento del chirurgo che quando opera è letteralmente violento, perché incide, taglia, amputa addirittura, ma se l’intenzionalità è salvare la vita al paziente nessuno potrà dire che è un violento, ovvero aggressivo e distruttivo.

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