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Frodi fiscali e fatture false: la Cassazione conferma il pugno duro, se ti beccano paghi una multa salatissima
La Corte di cassazione ha ribadito la linea dura contro le frodi fiscali, confermando che l’amministrazione finanziaria può contestare fatture false se i beni acquistati sono del tutto estranei all’attività svolta dall’impresa. La sentenza n. 41696 del 9 ottobre 2013 ha respinto il ricorso della titolare di una ditta di pulizie, accusata di aver acquistato pellami e calzature da soggetti pregiudicati. Una condotta che ha portato la Guardia di finanza ad avviare indagini per frode fiscale e a sequestrare parte del suo patrimonio.
Gli inquirenti hanno evidenziato che l’acquisto da soggetti già noti alle autorità e la natura dei beni comprati costituivano indizi gravi e sufficienti a configurare il fumus del reato. La Guardia di finanza, di fronte a spese ingiustificate e non riconducibili al core business della società, ha ritenuto legittimo ipotizzare l’emissione di fatture false per giustificare detrazioni fiscali indebite.
Il Tribunale della libertà di Macerata ha confermato la misura cautelare, e la Suprema corte ha ribadito che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente può riguardare non solo il prezzo ma anche il profitto del reato. Nel caso dei reati tributari, il profitto non deve essere inteso solo come un arricchimento diretto, ma anche come qualunque vantaggio economico, compreso il risparmio di spesa ottenuto tramite pratiche illecite.
Secondo la terza sezione penale della Cassazione, la normativa vigente, in particolare l’art. 1, comma 143, della legge 244 del 2007, rinvia integralmente alle disposizioni dell’articolo 322-ter del codice penale. Questo significa che, nei reati tributari, il profitto confiscabile comprende anche crediti fiscali fittizi o imposte non versate grazie a fatture per operazioni inesistenti. La Corte ha quindi considerato corretto il sequestro dei beni per un valore equivalente al vantaggio economico ottenuto dalla contribuente.
L’ipotesi delle fatture false
Il caso affrontato dalla Cassazione non è isolato. Lo scenario tipico di queste frodi prevede l’emissione o l’utilizzo di fatture false per simulare acquisti mai avvenuti. In ipotesi simili, un’impresa può “comprare” beni mai consegnati, come prodotti elettronici per importi ingenti, al solo scopo di creare un credito IVA da portare in detrazione. In realtà, dietro a tali operazioni non vi è alcuna transazione reale, ma solo un meccanismo volto a sottrarre risorse all’erario.
Dal punto di vista economico, l’impatto di tali condotte può essere devastante. Se un’impresa emette o utilizza fatture false per 80.000 euro, il fisco è autorizzato a recuperare integralmente l’imposta o il credito indebitamente maturato. A questo importo si aggiungono le sanzioni amministrative, che possono variare dal 30 al 200% del valore contestato. In uno scenario ipotetico con una sanzione pari al 100%, il contribuente si troverebbe a dover restituire complessivamente 160.000 euro.
Fatture false – fonte pexels – Sicilianews24.it
Il rischio penale
Oltre al piano economico, c’è anche quello penale. L’emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti configurano reati fiscali che, nelle ipotesi più gravi, possono comportare la reclusione. La giurisprudenza, seguendo un orientamento ormai consolidato, non fa sconti a chi tenta di eludere il fisco con strumenti fraudolenti, ritenendo che tali comportamenti non solo ledano le casse dello Stato, ma creino anche concorrenza sleale tra imprese.
La sentenza della Cassazione conferma la volontà di mantenere una linea dura sul fronte delle frodi fiscali. L’interpretazione estensiva del concetto di profitto e la legittimità dei sequestri preventivi rafforzano l’arsenale di strumenti a disposizione della Guardia di finanza e della magistratura. In un contesto in cui il fenomeno delle fatture false continua a rappresentare una delle principali fonti di evasione, il messaggio della Suprema corte è chiaro: non ci sarà alcuna tolleranza per chi utilizza strumenti fittizi per arricchirsi o risparmiare illecitamente sulle imposte.
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